Cerchiamo di essere coscienti, coscienziosi e consapevoli. Siamo in piena pandemia, una pandemia di disturbi dell’umore. Una pandemia che preoccupa. L’O.M.S., Organizzazione Mondiale della Sanità, non più tardi di 2 anni fa, ha lanciato un grande SOS a tutti i centri specializzati in psicologia, neurologia, sociologia e affini. L'America è già cosciente, perché i dati epidemiologici lì sono chiari: più del 25% della popolazione adulta ha una diagnosi di depressione major, ma quel 25% (cioè un quarto della popolazione) è stato misurato 2 anni fa e gli indicatori oggi sono maggiori. Gli altri Paesi del mondo non possono lo stesso stare molto più tranquilli. Ora stanno solo consapevolizzando.
Ma il dato su cui mi interessa focalizzare l’attenzione è la precocizzazione dei disturbi dell’umore. In adolescenza le manifestazioni collegate all’instabilità emotiva sono tali da mandare in allerta le Commissioni che si occupano di temi di pertinenza tra clinica ed educazione. Perché? Cosa sta accadendo ai nostri giovani? Cosa sta accadendo a noi?
Dobbiamo fare un passo indietro e ragionare sul funzionamento dei meccanismi di memoria, tornare al mantenimento dell’allert e al netto del fatto che gli scienziati, che si occupano di fisica applicata ai campi neurofisiologici del cervello, sono ancora in fase di sperimentazione diretta solo sul cervello animale, ed indiretta su quello degli esseri umani. Il passo indietro lo farò non utilizzando principi di certezza, ma principi di indagine e di buon senso.
Parliamo di emozioni. La gioia, ad esempio, ha un picco d’onda con un’altissima intensità, non banda di frequenza, ma intensità. Alta intensità ed una breve durata.
Praticamente parafrasando Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo: “Mi illumino d’immenso ed è subito sera”.
La gioia altro non fa che tracciare le memorie per l’intensità, ma immediatamente lascia spazio a nuove emozioni. Il cervello limbico, sede delle nostre emozioni, fa sì che il nostro decisore interno ci dica: “Cerca ciò che ti fa bene”. Ecco perché è breve l’emozione di gioia. Innesca il meccanismo di ricerca continua di questa emozione. Fa da apripista e poi se ne va via in volata, per parlare il “bikerese”, linguaggio a me caro. Ci induce a ricercare altra gioia, e non solo nella versione con cui l’abbiamo ricevuta la prima volta, ma nella varietà di tutte le possibili condizioni. Allora tutte le emozioni che contengono il messaggio cercami che ti fa bene, sono emozioni che hanno tracciati dove l’intensità è alta e la durata è breve. E ci assetano. Ne vogliamo ancora.
Fin qui ci stiamo ancora volendo bene. Indaghiamo, ora, su cosa accade quando viviamo le onde che trasportano il messaggio: “Scappa che duole”, “Togliti da là che ti nuoce”. Sono le onde generate da angoscia, tristezza, paura, ansia. L’intensità crolla, se ne va sottosoglia. Non a caso i modelli della psicologia del profondo, così come le deep sciences, ci parlano di un inconscio che - pur sottosoglia - è consapevole. Un trigger sepolto rimarrà silente, perché se è vero che l’intensità crolla, la sua durata è, ahimè, inversamente proporzionale. Per essere onomatopeici la potremmo descrivere con un “mmmmmmmmmmmm”. Transita nei circuiti a lungo perché deve ricordare a quell’organismo quel messaggio di fuga, lo scappa da lì che duole. L’intensità è bassa e la durata è lunga, molto lunga. Ci fa battere la ritirata. Non ne vogliamo più.
Addirittura a Losanna, gli esperimenti condotti sui topolini ci consegnano risultati conturbanti. Queste registrazioni sulla memoria non sono soltanto dell’individuo che ha personalmente sperimentato l’emozione, ma sono transgenerazionali. Si trasmettono a livello molecolare attraverso meccanismi epigenetici. Da madre a figlio, da figlio a nipote e così via. E questo magari lo sapevamo già. Uno dei meme più diffusi è proprio quello che ci insegna che gli ansiosi sono figli di ansiosi. Personalmente, però, mi sarei fermata ad un meccanismo di modeling quotidiano delle emozioni degli individui con cui maggiormente siamo più a contatto.
Mai mi sarei immaginata una vera e propria modifica molecolare che riscriva il DNA. Se rifletto, poi, mi compiaccio di come siamo perfetti nella nostra programmazione tesa alla sopravvivenza. Il compito a livello epigenetico è di proteggere le generazioni successive dal dolore. Ed i nostri circuiti processano perfette funzioni di difesa.
Da qui la preoccupazione della pandemia del dolore che avanza e vuole infettarci. Essa non dipende solo da una disprogrammazione neurofunzionale. Dipende piuttosto dall’effetto che hanno i meccanismi emozionali tuoi sul nutrimento delle emozioni mie. Mi spiego meglio. Se tu vai a lavoro accartocciato su te stesso, perché sei attanagliato da un’emozione negativa, per intenderci la tristezza, il meccanismo di tristezza di cui sei portatore nutre l’intelligenza umana tanto quanto le informazioni verbali che dai. “Body talk”, dicevano gli Imagination.
La potenza del non verbale. Si è innescato il cortocircuito emozionale. Diventiamo, nostro malgrado, il secchio della spazzatura delle emozioni negative altrui e rischiamo di diventare l’emozione spazzatura per il secchio del nostro vicino. Allora, dico io, organizziamoci. Ora lo sappiamo. Possiamo risvegliare le coscienze. Possiamo venirne fuori. Strumenti ne abbiamo. Non lo dico io, lo dicono le neuroscienze ed il buon senso.
È il significato che diamo all’errore il primo colpevole. Errore inteso come caduta, sbaglio, peccato, falsa interpretazione che conduce ad una decisione che si rivelerà inappropriata. È quello che genera il senso di colpa. La colpa di avere fatto male. Di non essere stati all’altezza. Di avere deluso qualcuno.
Ecco, nessuna di questa definizioni è corretta. Iniziamo a raccontarcela bene. Continuiamo a volerci bene. Non smettiamo proprio ora che ne abbiamo più bisogno. Senza errore quel salto quantico non lo fai. Senza errore non migliori. Cresci e basta. Che crescere non significa migliorare. Tutti crescono. Ma migliora solo chi ci mette del suo. E se per fare la tua parte passi per l’errore, chissenefrega. Era funzionale. Non esiste giusto o sbagliato. Esiste funzionale o disfunzionale. E l’ultimo errore che hai fatto è il tuo miglior maestro. Hai un sacrosanto diritto all’errore, devi solo darti il permesso di sbagliare.
L’emozione che vince sul senso di colpa è proprio l’emozione del diritto all’errore. Solo così generi quel sentimento di alleanza con te stesso che ti consente di perdonarti, di dismettere i panni di quel feroce giudice che continua a berciare come la Santa Inquisizione dentro di te. Questa è la soluzione. Questa è la condizione ottimale e fondamentale, questo meccanismo di alleanza con noi stessi è collegato ad un processo straordinario, l’ottimismo prospettico. Che non è il bicchiere mezzo pieno, ma è la memoria del futuro. Non sto attivando quella funzione di memoria che mi serve per ricordare dove ho messo la macchina o cosa devo fare domani. Sto attivando una funzione di memoria orientata al futuro, mi devo ricordare come correggere questo errore. Questo fa sì che io prenda il futuro e lo metta nel presente, finalizzando il mio comportamento all’autoregolamentazione delle strategie che, passo dopo passo, limitano le memorie dell’errore, fino a sostituirlo.
E come lo faccio? Cambiando prospettiva. Cambiando il mio dialogo interno. Non esistono errori. Non esiste fallimento. Esiste solo feedback. Tutti i comportamenti sono efficaci, tanto nel caso l’esito sia quello desiderato, quanto nel caso che non lo sia. Si fallisce solo quando si smette di provare per rinuncia. Se sbagli ma impari non hai fallito. Per fare cose nuove sbagli. Per non sbagliare serve esperienza. L’esperienza sono gli errori del passato.
Ed allora non congelatevi, non fermatevi, non preoccupatevi che non sia fatto bene, che non sia perfetto, che si tratti di lavoro, amore, famiglia o amicizia. Fate nuovi errori. Fate gloriosi, stupefacenti errori. Ed insegnate ai vostri figli a fare lo stesso. (GIORGIA VENERANDI)
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